Alessandra Pritie Maria Barzaghi

ALESSANDRA PRITIE MARIA BARZAGHI

La sua prima grande avventura inizia in India nel settembre 1969, quando, a due anni di età, lascia l’orfanotrofio di Pune insieme a una turista genovese.

Dopo un viaggio di tre giorni e uno scalo aereo a Bangkok, raggiunge i suoi nuovi genitori. Mamma e papà Barzaghi, brianzoli, possono stringerla a sé dopo un iter adottivo durato tre mesi dal primo contatto con il CIAI.

Uno dei primi casi di adozione internazionale, la sua foto finisce a pagina sei del quotidiano Il Secolo XIX. Un articolo commovente e piuttosto dettagliato viene dedicato alla storia di una famiglia italiana che ha deciso di adottare un bimbo straniero. Si parla di selezioni severissime: una domanda su trenta viene accettata, l’attesa è di pochi mesi e il costo per le pratiche dall’India è di 200.000 lire.

Giorno di nascita incerto, Pritie Maria riceve un nome italiano: Alessandra. Dorme per quarantotto ore di fila, preferendo il tappeto al letto, e con grande disappunto del bimbo biondissimo già presente in famiglia per adozione nazionale, che attendeva una sorellina per giocare. Il contrasto estetico tra i due fratelli, nonché la fisionomia orientale di Alessandra Pritie Maria, suscita di continuo la curiosità della gente, poco avvezza al concetto di adozione. Quattro anni dopo, la famiglia si ingrandisce con l’arrivo di un figlio naturale.

Alessandra Pritie Maria ama fare acrobazie, arrampicarsi sugli alberi e cantare. Perplessa, la mamma la iscrive a una scuola di danza per renderla più aggraziata. La nonna paterna, che è colta per la sua generazione e fa sfoggio di nozioni geografiche, le parla dell’Himalaya, le dice quanto debba andare fiera di essere nata nel Paese che detiene il record della cima più alta del mondo. Sebbene la nonna si sbagli sull’ubicazione dell’Everest, che in realtà si trova al confine tra Nepal e Cina, quel particolare inorgoglisce Alessandra, tanto da indurla a studiarsi l’intero mappamondo. Ancora adesso ha il pallino delle cartine e la passione per i viaggi naturalistici.

Il primo contatto con la sua vita precedente avviene a sei anni quando la suora dell’istituto, Mataji Nirmala, va a trovarla: ha programmato un giro in Europa per assicurarsi che tutti i bambini adottati dall’orfanotrofio di Pune crescano bene nelle loro nuove famiglie. Suor Mataji è seduta in salotto, infagottata nell’abito religioso, e Alessandra la fissa imbarazzata e desiderosa di tornare ai suoi giochi, al suo rassicurante tran-tran quotidiano. Rifiuta inconsciamente tutto quanto riguarda l’India, il Paese che ha vigliaccamente rinunciato a una sua figlia. Da quel giorno, Mataji Nirmala prende a scriverle direttamente: ogni Natale, arriva un delizioso bigliettino in carta di riso decorato a mano, con frasi liturgiche e l’augurio di trovarla felice e in salute. Quelle missive diventano un balsamo contro i momenti malinconici.

Alessandra abbraccia la sua nuova vita, studia, lavora, viaggia e forma una famiglia con un figlio biologico. Adesso è arrivato per lei il momento di riavvicinarsi alle sue origini: a 37 anni di distanza dal momento in cui l’aveva lasciata, torna in India, nel viaggio più emozionante della sua vita, per incontrare la sua bambina. Vederla finalmente dal vivo, dopo tre anni di attesa burocratica, materializzata dalla piccola fototessera fornita dall’ente per le adozioni, è un’esperienza indescrivibile.

La zona del Kerala in cui sorge l’orfanotrofio gestito dalle suore è un paradiso naturale di palmeti e lagune. La struttura è un compound autosufficiente con una chiesa, l’infermeria, la tessitura, la fabbrica di caucciù e la casa delle ragazze madri. Quello stesso giorno, Alessandra incontra un gruppo di donne che hanno dato i loro figli in adozione. Le mostrano fiere le foto dei loro ragazzi che conducono vite soddisfacenti in Olanda e in Belgio: hanno rinunciato ai loro bambini per estrema povertà, e non per i motivi futili che spesso si attribuiscono a certi popoli. Conoscerle la fa molto riflettere sul significato dell’adozione, sui pregiudizi del mondo Occidentale e sulle alternative possibili. Per certi versi, sente quasi di fare qualcosa di sbagliato: è lì per strappare a un’altra donna la propria bambina.

La bimba invece è sola lì, senza madre. È un piccolo motore perpetuo che le darà del filo da torcere. Conoscere la terra d’origine è stata un’esperienza travolgente che Alessandra riesce ad assimilare lentamente soltanto nel tempo. E ora, mamma bis, tornata in Italia, ritrova con grande rammarico nella fatica quotidiana di sua figlia, nei vari gradi scolastici e poi nella società, una serie di contraddizioni e situazioni irrisolte nel riconoscimento e nell’inclusione degli adottati, cosa che la convince ad attivarsi per cambiare le cose.

Vive nel Comasco in un angolo immerso nel silenzio e nella natura, ideale per la sua attività di autrice impegnata a far sentire le voci dei figli adottivi e a diffondere una corretta cultura dell’adozione, sfidando con delicatezza la narrazione adultocentrica prevalente.